Professore, prima di tutto le chiediamo come sta, cosa sta facendo da quando non è più sindaco di Roma?
Sono tornato negli Stati Uniti dove, con grande soddisfazione, ho ripreso a esercitare la mia professione di medico e professore universitario. Sono Professore di Chirurgia e Senior Vice President presso la Thomas Jefferson University. Vivo a Philadelphia, una città che amo e dove ho molti cari amici perché qui risiedevo e dirigevo l’Istituto di Trapianti d’Organo prima di essere eletto Senatore. Ho sempre considerato un enorme privilegio potermi confrontare ogni giorno con ricercatori e studenti motivati in un ambiente orientato al raggiungimento dei risultati, al gioco di squadra e, soprattutto, al servizio dei pazienti. Una vera boccata di ossigeno dopo certe esperienze.
Sappiamo che ogni tanto torna nella Capitale. Una domanda a bruciapelo, come ha trovato Roma?
Posso riferirle ciò che mi dicono le tante romane e i romani che mi fermano per le vie della Capitale quando torno a Roma. Mi raccontano una città ferma, con pesanti disservizi e sempre meno attenzione verso i più deboli e bisognosi. Non mi sembra che le grandi emergenze siano state risolte, spesso nemmeno affrontate. Anzi. Tante iniziative che erano state bene impostate durante la mia consiliatura sono state inspiegabilmente annullate. Un quadro desolante che da cittadino italiano, anche se vivo a ottomila chilometri di distanza, mette molta tristezza.
Lei ha puntato molto sulla rigenerazione urbana: un esempio su tutti quello del quartiere Flaminio. C’era poi anche uno studio realizzato da 25 università di tutto il mondo.
La rigenerazione del quartiere Flaminio, così ricco di realtà diversissime (dall’Auditorium di Renzo Piano alle caserme abbandonate di Via Guido Reni) fu affrontata bandendo una competizione internazionale, vinta da una architetta italiana con un progetto ecosostenibile finanziato da Cassa Depositi e Prestiti che avrebbe fatto nascere a Roma anche una Città della Scienza. Dopo il mio allontanamento il progetto è stato bloccato. Per non parlare delle aree periferiche di Roma dove negli anni ‘60-‘70 si sono trasferite centinaia di migliaia di persone. Il progetto a cui lei fa riferimento coinvolse 25 università fra le più prestigiose al mondo che progettarono pro bono ognuna un quadrante di Roma: un’operazione straordinaria che potrebbe essere messa a frutto e non tenuta chiusa in un cassetto.
Questione Stadio della Roma. 300 milioni di Opere Pubbliche cancellate, cosa vuole dirci?
Con l’aiuto di Giovanni Caudo, professore di Urbanistica a Roma Tre e assessore nella mia Giunta, chiedemmo al presidente della Roma, James Pallotta, di cambiare il suo progetto e di investire in opere pubbliche per un valore di diverse centinaia di milioni di euro. Tutto questo è stato cancellato nella revisione fatta dalla Giunta Raggi, poi il Governo a maggioranza PD ha detto che le opere pubbliche le avrebbe pagate il pubblico. Una cosa inspiegabile e sorprendente, anche perché la legge sugli stadi privati prevede proprio quello che abbiamo chiesto al costruttore privato, ovvero l’obbligo di investire in opere pubbliche. Nel progetto approvato dalla Giunta Raggi è stato di fatto cancellato l’interesse pubblico: una scelta difficile da comprendere e, probabilmente, difficile da votare in Consiglio comunale. Inoltre, qualcuno dovrà anche valutare se è legale costruire le opere di interesse pubblico con denaro pubblico quando la legge afferma che per esserci l’interesse pubblico devono essere pagate dai privati.
Le Olimpiadi sono un’altra occasione persa o Roma è davvero troppo indietro per una candidatura?
La mia Giunta aveva lavorato a favore di un lascito pubblico alla città, realizzabile nell’area fra la via Flaminia e la via Salaria, che avrebbe consentito una trasformazione urbanistica utilissima non solo al mese dei Giochi ma alla vita futura di Roma. Avevamo proposto la realizzazione di un grande parco fluviale, messo al servizio dei romani lungo il Tevere, nell’area compresa tra il Grande Raccordo Anulare e la via Olimpica, dove oggi ci sono un agglomerato informe di edifici, fabbriche e depositi abbandonati. Secondo il nostro progetto il complesso che doveva ospitare gli atleti avrebbe dovuto sorgere riqualificando cubature esistenti, senza aggiungere nuovo cemento, ma spazi verdi e di socializzazione intorno a blocchi riconvertiti che, una volta terminate le Olimpiadi, sarebbero stati utilizzate per la nuova “Città della Giustizia”. Avremmo sottoposto tre diversi progetti con un referendum al giudizio dei romani.
Che fine farà la Città dello sport?
La scelta della zona di Tor Vergata in cui far sorgere il Villaggio Olimpico nel progetto per la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 era stata caldeggiata da persone e poteri che non avevano come stella polare il bene pubblico di Roma. Purtroppo lo sviluppo urbano troppo spesso viene lasciato nelle mani di decision makers che hanno finalità diverse.
Le Società partecipate del Comune sono in profonda crisi tanto da far scendere in piazza i dipendenti. Una cosa del genere non era mai successa prima.
Una manifestazione di questo tipo è sempre un momento doloroso, per chi la organizza e per chi in qualche modo la subisce. È anche sintomo di mancato dialogo e collaborazione. Sulle aziende partecipate nel 2014 avevo disegnato un piano di rientro triennale che prevedeva risparmi pari a 445 milioni di euro e che serviva a garantire a Roma il riconoscimento degli extracosti sostenuti per le funzioni di Capitale, una cifra di almeno 150 milioni di euro l’anno. La gestione M5S del problema della razionalizzazione delle aziende partecipate di Roma è a dir poco discutibile.
Cosa rivendica come maggior successo della sua amministrazione?
Nei primi mesi della mia sindacatura chiusi, come promesso, la discarica di Malagrotta, sulla quale pendevano procedure di infrazione europee che i miei predecessori avevano finto di non vedere. Aprimmo la linea C della metropolitana e pedonalizzammo i Fori Imperiali e piazza di Spagna. Ma soprattutto quello che facemmo fu avviare una nuova stagione in cui, ad esempio, sul tema delle nomine si procedeva per la prima volta non seguendo i desiderata dei partiti ma i curricula e il merito. L’aver imposto questa rivoluzione certamente ha infastidito molti ma ha anche dimostrato che un metodo diverso è possibile.
Roma ha bisogno di un piano straordinario di investimenti o altri poteri speciali?
È sufficiente leggere gli ultimi accordi di programma dei governi gialloverde e giallorosso per capire che la politica italiana non ha interesse per Roma. Sentiamo parlare di poteri speciali e investimenti come di un regalo alla Capitale del Paese quando Parigi riceve una somma aggiuntiva che sfiora il miliardo di Euro e Londra quasi due miliardi di Euro all’anno, per le rispettive funzioni di Capitale. Inoltre Roma, rispetto alle altre Capitali, per ogni Stato straniero ospita non una ma tre rappresentanze diplomatiche: una per gli organismi delle Nazioni Unite, una per il Vaticano e una per lo Stato italiano. Questi elementi spiegano le tante difficoltà per amministrare una città unica al mondo che ha bisogno certamente di uno status speciale che consenta, ad esempio, di gestire direttamente dei fondi e di avere un Campidoglio in grado di trattare le proprie competenze direttamente con il governo centrale, senza l’intermediazione della Regione Lazio.
Se avesse a disposizione un miliardo di euro come extra per la capitale, da dove ripartirebbe?
Dai problemi che tutti i romani, giustamente, lamentano di più: la manutenzione delle strade e del verde pubblico, il decoro, l’organizzazione dei trasporti e la gestione dei rifiuti. Inoltre, sanerei ferite urbanistiche come quelle lasciate nelle periferie costruite negli anni ’60 e ’70 che tutt’oggi hanno disagi enormi per carenza di reti fognarie, trasporti adeguati e addirittura acqua potabile.
Luca Rossi