C’era una volta, nel cuore del Ghetto di Roma, uno spazio culturale in cui trovavano dimora teatro, mostre, installazioni artistiche, kermesse di poesia e cinema, fino a serate di musica elettronica e dj set. Una residenza temporanea, e soprattutto gratuita, per le compagnie teatrali che da tutto il mondo passavano per la Capitale. Tutto questo era il Rialto Sant’Ambrogio, un centro sociale situato in un vecchio convento del ‘500 a due passi dal Lungotevere de’Cenci e dall’Isola Tiberina. Nel 2017 la Giunta Grillina ha avviato la riacquisizione a patrimonio comunale, con annesso sgombero dei collettivi che nel 2000 lo avevamo ricevuto in concessione dal Comune. E così sul Rialto è calato il sipario. Negli anni precedenti erano inoltre pervenute richieste di canoni arretrati pari a circa 3 milioni di euro. Ma non è finita qui. Due mesi fa, ai quattro componenti di una delle associazioni del teatro autogestito, ‘Rialtoccupato’, è arrivata infatti una cartella esattoriale da 183 mila euro che sa tanto di ‘persecuzione’ personale. Si tratta di una sanzione e riscossione di tasse non pagate per la presunta attività commerciale, e non culturale, svolta durante la riapertura del Rialto a cavallo tra il 2014 e il 2015. Alla base della contestazione, la presenza di un bar all’interno del centro sociale. Questo stando ad un’indagine che ai tempi condusse la Guardia di Finanza, a cui seguì anche un’operazione della Digos che nel febbraio del 2015 appose un’altra volta i sigilli all’edificio.
LA NUOVA CARTELLA
Le vecchie pretese del Comune sui canoni sono state tutte cestinate dalla Corte dei Conti, che aveva smentito la sua stessa procura generale: quello è infatti un immobile rientrante nel patrimonio ‘indisponibile’ di Roma Capitale, e quindi destinato ad attività socio-culturali e ad organizzazioni no-profit, in cambio di un canone abbattuto dell’80%. Uno dei tanti casi al centro del braccio di ferro tra le onlus e l’amministrazione capitolina, ereditato dal giro di vite lanciato da Ignazio Marino nel 2015. Erano i tempi di ‘Affittopoli’, e nello stesso calderone, assieme a lussuosi appartamenti vista Colosseo affittati a pochi euro, finirono indistintamente anche le associazioni che avevano in gestione spazi abbandonati. Sgonfiatasi quella bolla, ecco però che agli ex concessionari del Rialto è arrivata la nuova richiesta di pagamento dell’Agenzia delle Entrate, notificata a dicembre 2019. E riguardante solo i primi due mesi di quella riapertura di cinque anni fa: per gli altri otto c’è il rischio di nuove cartelle.
«TRATTATI COME UN’IMPRESA COMMERCIALE»
«Siamo stati considerati – spiega a il Caffè di Roma l’attore Fabrizio Parenti – una vera e propria impresa che svolgeva un’attività commerciale. Senza tener conto che i proventi venivano reinvestiti per finanziare le attività culturali, che ricoprivano l’intero arco della giornata. Noi siamo stati una residenza artistica ante litteram». Oltre che per i teatri di tutta Italia, è passato anche per il piccolo e grande schermo. Era il vicepresidente dell’associazione ‘Rialtoccupato’, ma soprattutto era uno di quelli che ha provato a non far staccare la spina all’ex Rialto. Insieme a lui e agli altri due soci fondatori, Luigi Tamborrino e Francesca Donnini, c’era anche Graziano Graziani, conduttore radiofonico Rai, scrittore e critico teatrale. Che sottolinea: «Oltre alla multa, ci chiedono di pagare gli arretrati di lrap, Irpef ed Iva, calcolati come se fossimo una ‘società di persone’ e non un‘associazione. E per giunta basandosi su presunzioni d’incasso – con prezzi da night club – e assegnandoci una partita Iva che in realtà non è mai esistita». In altre parole, continua Graziani, «hanno cancellato del tutto l’attività socio-culturale: in 15 anni di attività abbiamo ospitato decine e decine di compagnie teatrali, fornendo migliaia di ore di prove senza chiedere un soldo».
PROMESSE NON MANTENUTE
«Un protocollo d’intesa del 2004 siglato dal Comune e l’associazione Rialtoccupato – rammenta invece Fabrizio Parenti – prevedeva il trasferimento presso l’ex autoparco dei vigili urbani a Porta Portese, adeguatamente ristrutturato. Insieme ad una regolarizzazione, giuridica e fiscale, tramite una vera e propria impresa culturale, grazie ad una riforma in materia. Ma tutto questo non è mai avvenuto». Nel frattempo c’è una cartella da 183mila euro pendente sul reddito dei quattro soci dell’associazione. A cui non converrebbe nemmeno provare a contestare il tutto, per via dei costi proibitivi del ricorso in commissione tributaria.