Vedi il post su Facebook di Roma Capitale, dove l’immagine più iconica di Michelangelo (le due dita che si toccano del Giudizio Universale che tutti possiamo ammirare nella Cappella Sistina) viene confusa dai social media manager di Raggi e soci con un’opera di Leonardo Da Vinci, e ti cadono le braccia. Quasi più che leggendo la spiegazione: “intendevamo lo stile” è il nuovo “ma ti sei offeso, stavo scherzando?”. Dalle parti del Campidoglio volevano festeggiare il cinquecentenario dalla nascita del genio assoluto – che dà il nome anche all’Aeroporto della Capitale, a Fiumicino – e giustamente non si controlla neanche su Google Immagini se il capolavoro è suo. Un errore puerile, ridicolo. Ci si potrebbe pure passare sopra se non fosse il sintomo di una malattia endemica, di una Roma che nelle stanze del potere da almeno una dozzina d’anni di cultura non vuole sentir parlare, figuriamoci promuoverla. Era il 13 febbraio 2008 quando si dimise Walter Veltroni, uno che decise di farne il core business della propria attività politica: se ora ci sono dei presidi fondamentali della vita intellettuale di questa metropoli lo si deve agli anni in cui lui lavorò per aprire la Casa del Jazz e la Casa del Cinema, organizzare la Notte Bianca, permettere l’inaugurazione dell’Auditorium, offrire i grandi concerti gratuiti. Qualsiasi sia il giudizio politico su quell’amministrazione, è innegabile che Roma avesse numeri totalmente diversi allora: turisti che arrivavano in massa e che aumentavano per numero e giorni di permanenza anche rispetto al Giubileo (mentre ora diminuiscono e rimangono meno), investimenti privati notevoli, oramai quasi azzerati, poli culturali e comunicativi che si insediavano dentro il Grande Raccordo Anulare mentre ora fuggono a gambe levate. Eppure la nostra città continua ad avere un fascino straordinario. Lo testimonia, per dirne una, l’entusiasmo con cui Netflix, forse la più grande innovazione e realtà culturale e comunicativa degli ultimi anni, ha deciso, contro ogni previsione, di scegliere Roma come suo campo base in Italia. Un punto di riferimento che sarà cruciale per tutta l’Europa del sud e una scelta che è stata accompagnata da parole chiare. “È vivace e creativa”, hanno detto i vertici della multinazionale. Ed è vero, nonostante investimenti pubblici risibili – e dedicati a realtà fin troppo pop come la Festa del Cinema -, qui continuiamo a vivere un momento di grande fertilità artistica. Grazie a chi ha il coraggio di investire in settori non molto redditizi, come i festival o i live musicali, spesso privati con aziende piccole che non si rassegnano e portano avanti progetti culturali forti. Tutto ciò nonostante molti debbano chiudere i battenti – dal Grauco, cinema storico del Pigneto, poi divenuto Kino e infine costretto a scomparire, fino alla splendida rassegna Arcipelago, capace di scoprire i registi di domani dai loro primi cortometraggi – e altri siano costretti a ridimensionare drasticamente le proprie prospettive. In una città che ha invece imposto e impostato una strategia, da sempre, inclusiva e coraggiosa: da Nicolini, mai abbastanza rimpianto (e dire che ormai è divenuto un santino) allo stesso Veltroni, Roma è rimasta anche nei suoi momenti di crisi maggiore, economica e strutturale, un faro culturale e artistico. Ora il suo ruolo, ad esempio, di Capitale del Cinema è insidiato da una Napoli che ha una vitalità straordinaria – dall’animazione della Mad a un paio di generazioni di cineasti partenopei capaci di rinnovare profondamente l’ispirazione del settore, passando per i tanti che la stanno usando come set, mentre per girare a Roma devi avere la potenza muscolare di 007 o Angeli e Demoni -, così come i grandi eventi ormai guardano a Milano (dall’Expo alle Olimpiadi, grandissima occasione anche culturale, rigettata con una miopia drammatica al mittente). Nulla è perduto, dal Macro al Maxxi, dai monumenti e le zone archeologiche da valorizzare fino alle possibilità di ricostruire nei quartieri più iconici veri e propri centri di rigenerazione artistica (pensate come è rinata la Centrale Montemartini, ad esempio, o come un quartiere intero sia stato rivoluzionato grazie all’insediamento riqualificante di una zona in difficoltà dell’Università di Roma Tre). L’idea ad esempio, a Trastevere, di costruire attorno al Cinema Troisi una joint venture tra il Cinema America e la sua profonda vitalità con la Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté che lì vicino dovrebbe aprire una nuova sede, va in quella direzione. Virginia Raggi è nata e cresciuta in una Roma inclusiva e tollerante, colta e curiosa, piena di opportunità e di visione – e probabilmente il lavoro fatto per attrarre Netflix nasce proprio dal fatto che la condivide -, non quella impaurita, rattrappita, meschina che è attualmente. Provi a farla tornare tale – anche se da Alemanno in poi il campo è stato disastrosamente distrutto -, perché la cultura di cui è impregnato questo tesoro straordinario che chiamiamo Capitale è una ricchezza che potrebbe diventare inesauribile. Ed è l’unico modo per diventare un Paese, una civiltà migliori.
Boris Sollazzo
10/02/2020