Mannocchi, a che punto siamo con la crisi? Da alcuni dati della Camera di Commercio sembra che ci sia una certa vivacità per quanto riguarda il mondo delle imprese…
“I dati della Camera di Commercio vanno letti attentamente: questo sottolineare la crescita delle piccole imprese per me non vuol dire molto, anzi, è sintomo che davvero molti sono ridotti alla canna del gas. Tante famiglie i cui figli non trovano lavoro, infatti, decidono di investire i propri risparmi e tentano l’ultima carta aprendo un’attività, di solito senza avere la preparazione necessaria, tanto è vero che i dati, se li vogliamo approfondire, sono molto ballerini: nel giro di un anno chiudono e aprono tante imprese”.
Ma vorrà dire pure qualcosa, almeno c’è la volontà di provarci, di creare un’alternativa.
“Il problema di Roma e anche del Lazio è che la maggior parte del suo tessuto imprenditoriale non crea valore aggiunto. Non è paragonabile con Milano dove, non a caso, gli stipendi sono allineati alle città europee e sono molto più alti. Il nostro sistema non esporta nulla, neanche con le regioni limitrofe, perché la gran parte delle imprese svolgono attività di servizio e rientrano nel terziario. Il Prodotto Interno Lordo è basso. Poi certo, questa è un’area metropolitana enorme, ci sono gli enti pubblici, la Chiesa, la diplomazia e quindi alla fine ci sono delle risorse, ma sono sistemiche, non vengono certo dal mondo imprenditoriale”. Nell’ottobre scorso il Consiglio Regionale del Lazio ha approvato il nuovo Piano del Commercio, che ne pensa? “È stata un’occasione persa. Noi abbiamo bisogno di liberalizzare e semplificare, non si possono più fare discussioni di retroguardia su cosa servire a tavola, su quando devono iniziare i saldi e se aprire o meno la domenica. Serve una legge che semplifichi la vita a chi vuole fare impresa. Ad esempio sono anni che si registra una riduzione drastica delle imprese artigiane di Roma e questo è avvenuto a causa di un sistema legislativo vecchio che scoraggia chi vuole iscriversi all’albo delle imprese artigiane, perché l’iscrizione ha procedure troppo complesse e alla fine i commercialisti consigliano di fare una srl. C’è un tema di semplificazione molto grande a livello nazionale e a livello comunale”.
Lo Sportello Unico per le imprese non è stato creato proprio con questo obiettivo?
“Purtroppo gli sportelli unici per le imprese di Roma non funzionano, sembra anzi che qualcuno funzioni meglio dell’altro, come se fossero municipi diversi tra loro, ed è un peccato perché potrebbero davvero risolvere molto in termini di semplificazione, che rimane fondamentale in un mondo dove il sistema di tassazione è altissimo e la globalizzazione impone una competizione molto forte. Modernizziamo e liberalizziamo, il mercato globale prende ugualmente una direzione ben precisa, rimanendo ancorati a vecchie questioni si rischia davvero di perdere terreno”.
Sono iniziati i saldi che solitamente rappresentano una boccata d’ossigeno per il commercio.
“I saldi non hanno senso in un momento in cui sul web trovi tutto, con sconti su tutto e durante tutti i giorni dell’anno: abbiamo bisogno di un mercato più liberale, almeno che sia simile al modello di altri paesi europei vicini a noi”.
A Roma sopravvivono ancora tanti mercati, alcuni storici. Sono destinati a sparire o bisogna puntarci?
“Nella Capitale ce ne sono circa 120, alcuni molti belli e ben strutturati, ma anche qui il Piano del Commercio ha perso un’occasione: ognuno si fa il banco come gli pare, molti hanno dei banchi troppo piccoli che non reggono la concorrenza, in altri casi c’è un subaffitto e quindi si crea un blocco allo sviluppo, spesso trovi due banchi vicini con la stessa merce. Vanno riscritte regole chiare: prima di tutto se uno ha ricevuto una concessione dal Comune e non la può più tenere, la ridà indietro, non esiste che subaffittta. Poi bisogna trovare una misura standard per la lunghezza dei banchi, 16m è piccolo, facciamolo di 20 o 24 metri. I banchi inoltre dovrebbero avere tutti un certo stile, degli standard. Dall’accordo quadro per il commercio doveva venire fuori un indirizzo comune. Sarebbe anche auspicabile che vengano introdotti metodi che la grande distribuzione usa da 30 anni, visto che a parità di superficie occupata un supermercato fattura 10 volte quello che fattura un mercato rionale. Ad esempio le tessere fedeltà, la segnaletica, una funzionalità nella distribuzione dei prodotti, un sistema di telecamere intelligenti per capire le abitudini del consumatore e correggere il tiro. E poi si doveva puntare su prodotti di qualità, sul made in Italy e invece si vive ancora nello spontaneismo più assoluto”.
A proposito di “spontaneismo”, un’altra grande piaga del commercio romano è l’abusivismo.
“La prima strategia da mettere in atto è semplice: bisogna far capire che le regole vanno rispettate. Mi chiedo come sia possibile che, ad esempio, i cosiddetti negozietti etnici non abbiano regole: sono aperti fino a tardi, vendono alcolici ai minorenni, vendono di tutto, non si capisce chi ci lavori dentro. È chiaro che intervenire a 360° sarebbe impossibile in una città come Roma, ma almeno si possono fare dei controlli a campione, si scelgono magari delle vie del centro e si cominciano a fare multe e a sospendere le autorizzazione e poi, se continuano le infrazioni, si impone la chiusura. C’è anche il problema degli autolavaggi che per la maggior parte sono nelle mani della comunità marocchina: anche qui non c’è controllo, fanno come se fossero acuqe domestiche, scaricano in fogna e nessuno interviene. Invece di far chiudere il locale scatta la denuncia ma spesso il proprietario cambia ed è difficilmente rintracciabile.”
Anche quest’anno le bancarelle di Piazza Navona hanno portato la loro polemica.
“Non vorrei essere ripetitivo, ma noi sull’artigianato di qualità stiamo facendo una battaglia da tempo: questa città ha bisogno di valorizzare i suoi artigiani, perché ci sono, ma se nessuno li aiuta, come fanno a pagarsi un posto in centro? Va a finire così che ti ritrovi per l’ennesimo anno con le bancarelle della famiglia Tredicine che vendono le stesse identiche cose che trovi ad un supermercato, solo ad un costo raddoppiato. Noi abbiamo fatto la proposta di trasformare il complesso di S.Michele a Ripa Grande, vicino Porta Portese. È un posto molto bello, nell’800 c’erano delle botteghe artigiane e oggi quei luoghi potrebbero essere utilizzati per l’esposizione e la vendita di un artigianato di qualità, magari mettendoci delle imprese anche a rotazione, con un marchio di qualità che potrebbe essere, ad esempio, il ‘Made in Rome’. Bisognerebbe stilare una carta di 10 regole da rispettare per ricevere il marchio, una commissione per la verifica e studiare un bel timbro. Abbiamo già fatto proposte in tal senso alle diverse amministrazioni comunali, al ministero della Cultura e anche alla Camera di Commercio, ma niente, è tutto bloccato”.
Quindi a Roma ancora esistono degli artigiani?
“Certo, ma ormai sono stati buttati fuori dal centro e dalle vie del commercio, perché ci sono degli affitti troppo alti e infatti le vie della Capitale sono piene di banche e di agenzie. L’artigiano lo trovi in uno scantinato della periferia e non è detto che poi mantenga l’attività o che, cosa sempre più difficile, la passi ai propri figli, soprattutto se rimane in queste condizioni. Bisogna creare una sinergia con l’amministrazione comunale e regionale e con il Mibac: un marchio ‘Made in Rome’ può dare molto lustro alla città e creerebbe lavoro aggiunto e posti di lavoro”.
Ma quindi com’è il rapporto con questa amministrazione?
“I nostri sono interessi piccoli, è difficilissimo trovare un’interlocuzione, noi abbiamo sempre fatto grande fatica. Con questa amministrazione in particolare è difficile ragionare, notiamo purtroppo un pregiudizio culturale nei confronti delle imprese, che impedisce il dialogo e che ci fa sperare che vadano via il prima possibile. È un peccato perché ci sono tante potenzialità che andrebbero sfruttate”