«Se non si consentirà ai medici di famiglia di prescrivere farmaci adatti già nelle prime fasi della malattia da Covid 19, continueranno a essere mandati in ospedale pazienti già gravi». È l’allarme lanciato dal Sindacato Medici Italiani, che chiede alla Regione Lazio di dare più autonomia decisionale ai medici di base nella gestione dei propri assistiti, sospetti o già positivi al coronavirus, per limitare il rischio di complicanze gravi. Oggi, spiega al Caffè la dottoressa Pina Onotri, segretario generale dello SMI, il dottore non può neanche prescrivere il test del tampone quando si trova di fronte a un paziente con sintomi sospetti, ma solo richiederlo, aspettando di essere ricontattato dalla Asl. Ma questo, afferma Onotri, non avviene sempre tempestivamente, con il rischio che i farmaci ora disponibili per le cure vengano somministrati in ritardo.
Dottoressa Onotri, nel Lazio che cosa è previsto che faccia un medico di famiglia se sospetta che un suo assistito abbia contratto il Covid 19?
«La prima cosa che il medico deve fare è inviare una e-mail alla Asl, segnalando che si trova davanti a una persona con sintomi sospetti. In seguito, l’ufficio di profilassi della stessa Asl dovrebbe contattare il paziente e anche il medico per valutare la situazione. Successivamente, sempre la Asl dovrebbe comunicarci se la persona va messa in quarantena, dato che è il medico di famiglia a dover rilasciare il certificato al paziente, e infine dovrebbe dirci se la quarantena si è conclusa e con quale esito. Cosa che quasi mai succede».
Di mezzo quindi c’è il famoso test del tampone. Come funziona la richiesta, e in che tempi solitamente viene effettuato?
«Nella segnalazione che fa alla Asl, il medico di base comunica all’ufficio di profilassi che il paziente è “meritevole di tampone”, tuttavia nelle ultime settimane i medici stanno chiedendo esplicitamente che venga eseguito.
Bisogna dire che dei tamponi richiesti solo una percentuale esigua viene eseguita, oppure vengono fatti molto in ritardo. Personalmente, ad esempio, ho segnalato su Roma 16 pazienti: la Asl ne ha chiamato uno ben 15 giorni dopo per valutare l’esecuzione del test. È evidente che in due settimane le condizioni cliniche di queste persone hanno avuto tutto il tempo di aggravarsi, oppure di migliorare spontaneamente».
Che cosa rischia una persona che ha contratto il Covid 19, se questo non viene diagnosticato e curato tempestivamente?
«In una certa percentuale, non molto alta ma considerevole vista la contagiosità del virus, il paziente può rischiare di aggravarsi molto. A quel punto l’ospedalizzazione diventa necessaria. Ma se il ricovero avviene per un malato che già ha difficoltà respiratorie, perché magari a casa è stato curato in modo non adeguato o in ritardo, questo paziente avrà maggiori possibilità di dover essere ricoverato in terapia intensiva e magari intubato.
Oltre alle maggiori probabilità di aggravamento del malato, un tampone fatto in ritardo non consente di limitare gli spostamenti delle persone che vivono quotidianamente intorno ad esso, e che potrebbero a loro volta aver contratto il virus. Così, mentre il “caso sospetto” si trova in auto-isolamento in attesa del test (una decisione, questa, che dovrebbe prendere la Asl, ma di fatto è quasi sempre il medico di base a suggerire all’assistito di isolarsi), la moglie può andare in farmacia oppure a fare la spesa, entrando in contatto con altre persone».
Qual è il quadro più frequente che si presenta nei malati Covid all’aggravamento delle condizioni cliniche?
«La polmonite interstiziale è il quadro che finora si è palesato più di frequente. Tuttavia, le evidenze sul campo ci mostrano che quella causata dal Covid 19 è una malattia multi-organo, che a volte presenta complicanze non soltanto polmonari, ma ad esempio anche vascolari. Sono complicazioni che possono avere conseguenze gravissime e anche letali nelle persone più fragili, ma va detto che anche alcuni pazienti giovani e sani si sono aggravati, e ci sono stati dei morti. Questo aspetto andrà certamente approfondito».
Ci sono farmaci efficaci per il trattamento del Covid 19 che i medici di famiglia possono prescrivere?
«Dopo le nostre sollecitazioni, l’Agenzia Italiana del Farmaco ha emanato una circolare il 17 marzo scorso segnalando che l’idrossiclorochina (un medicinale anti-malarico usato anche per la cura dell’artrite reumatoide), se somministrata nelle primissime fasi e con sintomatologia poco grave, può tenere sotto controllo la malattia. Ma per essere efficace va assunta entro 3-5 giorni dai primi sintomi. Il problema è che noi medici di famiglia, in base a una circolare regionale, possiamo prescrivere questo farmaco solo a pazienti che hanno già eseguito il tampone e sono risultati positivi. In pratica la Regione si è adattata alla prescrizione dell’Aifa, ma nel provvedimento ha posto alcuni paletti, come appunto quello del tampone con esito positivo, che visti i tempi reali di esecuzione del test la rendono di fatto impraticabile».
Questo perché a quanto ci dice il farmaco andrebbe assunto entro 5 giorni dai sintomi. Se, come ci racconta, il tampone viene eseguito anche due settimane dopo la segnalazione del medico, sembra esserci un problema di tempi.
«Purtroppo, quello che ha previsto la Regione non è detto che corrisponda alla realtà dei fatti. Noi chiediamo di poter prescrivere l’idrossiclorochina in base ai sintomi clinici e non solo dopo l’esito degli esami di laboratorio, ma sono stati molto chiari a dire che non si può somministrare per profilassi».
Di che tipo di farmaco si tratta? Ha gravi effetti collaterali? Può essere acquistato in farmacia?
«L’idrossiclorochina è un anti-malarico prescritto “off label” per le infezioni da Covid; in genere si prescrive per l’artrite reumatoide. Un malato di Covid accertato può richiedere il farmaco presso una farmacia ospedaliera presentando un modulo apposito, fornito dalla Regione e compilato dal medico, e gliene viene consegnata la dose necessaria.
Per quanto riguarda gli effetti collaterali, ne ha come molti altri farmaci. Circa 1 paziente su 400 può presentare problemi cardiaci, ma consideri che viene prescritto su ricetta bianca per la profilassi anti-malarica di chi deve andare in vacanza in alcune zone dell’Africa. Indubbiamente non è un farmaco di automedicazione, deve essere sempre il medico a valutarne attentamente la prescrizione».
Come viene assistito, ad oggi, un paziente Covid a domicilio?
«Stiamo ancora aspettando l’istituzione delle Uscar, le unità sanitarie speciali previste dal decreto dell’8 marzo scorso. Si tratta di medici volontari che, protetti adeguatamente, somministrano la terapia a domicilio. Sono partite in diverse province italiane, ma da noi ancora no». (Il bando regionale per l’arruolamento di medici e infermieri da inserire nelle Uscar è scaduto il 16 aprile, ndr).
«Attualmente noi medici di famiglia assistiamo i pazienti Covid telefonicamente, con videochiamate, monitoriamo i parametri vitali. Oppure decidiamo di coprirci il più possibile e andiamo a casa loro. Ovviamente con mascherine e guanti che ci siamo comprati da soli».
Come vengono tutelati i medici di base dal rischio di contagio?
«Lo dico chiaramente: i medici di famiglia e le guardie mediche non sono tutelati in alcun modo. Non sono nemmeno stati distribuiti loro i dispositivi di protezione individuale. Pensi che lo SMI ha comprato e distribuito ai medici italiani circa 30mila mascherine».
Avete in programma incontri con la Regione per segnalare le criticità che state riscontrando?
«Noi continuiamo a mandare lettere su lettere, ma la Regione non ci convoca. Vorremmo dare un contributo organizzativo, vogliamo capire anche come sarà affrontata la famosa fase 2 che, dopo lo svuotamento degli ospedali, sarà di gestione prettamente territoriale, ma come facciamo in queste condizioni? Ho paura che dovremo fare una guerra con le armi spuntate».
«I medici non devono rispondere legalmente di una gestione inefficiente»
«Gli errori e le inefficienze nelle cure ai pazienti affetti da coronavirus, causati dalle mancanze delle Regioni e dalle deficienze delle direzioni delle aziende sanitarie, non possono essere addossate ai medici». Il segretario generale del Sindacato Medici Italiani, Pina Onotri, chiede che i medici, dirigenti o convenzionati, non debbano rispondere civilmente, penalmente e per danno erariale per eventi avversi accaduti durante la pandemia e lo stato di emergenza da Covid 19, se non per dolo. Non esistono protocolli consolidati per la cura di una patologia nuova e di tale complessità, afferma Onotri, e sono carenti anche i dispositivi di protezione individuale per il personale sanitario. Questi i motivi per cui, secondo lo SMI, i medici non devono pagare il prezzo, anche economico, dell’emergenza in corso.
«Siamo convinti – conclude il segretario generale – che non si può imputare al medico la colpa per ritardi terapeutici causati dall’assenza di indagini diagnostiche disponibili, o da problematiche derivanti da un’organizzazione aziendale non in grado di rispondere all’emergenza».