Sul tema del coronavirus abbiamo voluto sentire il dottor Fabrizio Soscia, per 20 anni primario del reparto Malattie infettive del Santa Maria Goretti di Latina; oggi si occupa di Medicina infettiva al Sant’Anna di Pomezia e all’Icot di Latina. Sempre molto chiaro nelle spiegazioni: tranquillo, ma con l’energia di chi il toro vuole sempre prenderlo per le corna. “Ho affrontato il colera, la salmonella ‘Vienna’, l’epatite B e C, la tubercolosi, l’Aids, l’H1N1 (aviaria) e ora il coronavirus: ho sempre cercato di ricorrere alla ragione, anche per contrastare la paura. Di questa epidemia mi fanno paura più le conseguenze sociali, gli assalti ai magazzini, l’irrazionalità. Questo mi fa più paura”.
Allora non c’è da avere paura?
“Il futuro non lo vedo nero. Il presente però è complicato. L’errore è stato all’inizio dell’epidemia: inutile fermare negli aeroporti solo quelli con la febbre, dovevano mettere in quarantena qualsiasi persona proveniente dalle zone infettate”.
I buoi sono scappati? Cosa fare ora?
“La misura più importante ora è potenziare le squadre di investigatori medici epidemiologici, che debbono indagare sugli ammalati, ripercorrere i loro contatti e mettere i sospetti in quarantena. I casi sono ancora poche centinaia. Bisogna potenziare al massimo questa misura per circoscrivere i focolai. Adesso bisogna fare il massimo sforzo”.
Altrimenti?
“Quest’anno quasi 6 milioni di italiani hanno preso l’influenza. S’immagina cosa succederebbe se il coronavirus si diffondesse così? Nel Lazio negli ultimi decenni sono stati chiusi ospedali, ridotti i posti letto, falcidiati gli organici. Un’epidemia con questi numeri sarebbe un dramma per la sanità. E lo Spallanzani da solo non reggerebbe. Anche le strutture periferiche devono attrezzarsi e poter avere accesso ai test, ai laboratori dove poterli inviare”.
Magari come per l’influenza, quando arriva la primavera, scompare…
“Speriamo. Ma i coronavirus in alcune specie animali colpiscono in tutte le stagioni, senza distinzione di caldo o freddo. Nell’uomo è un’incognita”.
Ma allora dobbiamo davvero avere paura?
“L’ansia abbassa le difese immunitarie”.
E non possiamo fare niente?
“L’arma più forte per sconfiggere il coronavirus oggi è il nostro comportamento”.
Dobbiamo usare le mascherine?
“La mascherina chirurgica non è un filtro che ci protegge. Meglio lavarsi spesso le mani”.
Tutto qua?
“Il virus della varicella è leggero e può infettarci anche per via aerea a molta distanza. Il coronavirus si trasmette attraverso le goccioline di uno starnuto o un colpo di tosse, ma sono particelle pesanti. A 2 metri di distanza non arrivano. Però cadono sulle superfici che poi noi tocchiamo. E ci portiamo le mani agli occhi o alla bocca. Da lì entra il virus, dalle nostre mani. Dobbiamo lavarci benissimo le mani e spesso. Sempre, prima di mangiare o anche fumare una sigaretta. Lavarci con acqua e sapone o con una soluzione con una base alcolica almeno del 60-70%. E una cosa semplice, che possiamo fare tutti e che ci può salvare”.
Qualche altro consiglio?
“Evitare i luoghi affollati. Per un po’ di giorni, quando possiamo, restiamocene a casa. Ho visto una immagine di gente che si accalcava davanti ad un ospedale per fare il test del coronavirus, siamo alla pazzia: se c’è un positivo, ne può contagiare decine. Restate a casa e usate il telefono per parlare coi dottori”
L’Italia reggerà?
“Spero si prenda coscienza che bisogna migliorare le strutture per le malattie infettive. Come fanno gli ospedali ad isolare i pazienti con stanze di 4 posti letto o con i bagni in comune? Bisogna migliorare i laboratori d’analisi, aumentare i posti di rianimazione, non solo per il coronavirus. Nel 2015 in Italia ci sono stati 10.000 morti per malattie provocate da batteri resistenti agli antibiotici: questa è un’emergenza che non appare sui media”.
Ma all’inizio lei ha detto che il futuro non lo vede nero, perché?
“Ripeto, state a casa più che potete e lavatevi spessissimo le mani. Ci vorrà del tempo, ma il vaccino uscirà, i farmaci si troveranno. Il presente è complicato, ma il futuro non lo vedo nero”. Ci salutiamo con una stretta di mano. E poi mi offre il dispenser della soluzione alcolica e mi ammonisce: “Ci siamo dati la mano. Ora va disinfettata”.